DIALOGHI CON J. MORINEAU
Non c’è felicità senza pace e non c’è pace senza
giustizia. Aristotele affermava che il fine supremo delle
“buone azioni che ogni essere umano può compiere nella sua vita,” e, quindi,
anche l’obiettivo primario della giustizia, è la felicità.
Sfortunatamente, tante volte, la Giustizia non
riesce a rispondere oggi questo obiettivo per mancanza de mezzi e anche perché
ha perso di vista la finalità originale della sua funzione.
Dopo la rivoluzione francese, alla fine del XVIII
secolo, la legge positiva è diventata la risposta al bisogno di giustizia, ma,
si sa, non sempre la norma giuridica contribuisce a creare “la giustizia”:
soprattutto quando è maggiore il caos e più alto il conflitto, le soluzioni
giuridiche possono risultare insufficienti e non soddisfare in maniera adeguata
le attese delle persone . Per questo motivo, nel 1983, l’allora Ministro della
giustizia francese, Robert Badinter, ha proposto una forma alternativa alla
giustizia repressiva e ha dato impulso alla mediazione. Sono stata incaricata
di creare la prima esperienza di mediazione penale a Parigi e una nuova
struttura per accogliere i casi inviati dalla procura. Non conoscevo nulla
della mediazione e, in Europa, vi erano ben poche esperienze nel settore,
eccezion fatta per quelle dell’ADR (Alternative Dispute Resolution) nei paesi
anglosassoni e dell’l’ombudsman en Scandivania.
Di fronte del conflitto, che può condurre al
caos, alla separazione, alla divisione, siamo impotenti. È un’esperienza
comune a molti di noi che ci mette di fronte al senso della vita. In fine la
morte è la nostra sola certezza.
La separazione è la prima prova tragica della
vita, perché alla nostra nascita veniamo separati e il risultato immediato è un
grido; questa “identità” di separazione ci conduce a cercare, durante tutta la
nostra esistenza, la possibilità di ritrovare l’altra parte di noi “perduta”,
per essere uno. È un lungo cammino, condiviso con tutta l’umanità. Coscienti
della forza di questa sofferenza, i Greci avevano sviluppato modi di educazione
attraverso il mito e il teatro della tragedia in cui ci sono numerosi esempi
che sono specchio di questo vissuto di separazione.
Tuttavia, nel corso del tempo abbiamo perso
questa memoria e abbiamo costruito una società che dall’era dell’illuminismo
(ma già del rinascimento), e ancor di più negli XX secolo, ha preteso di
risolvere i conflitti e controllare le vicende umane con la forza della ragione.
Il crollo delle torri gemelle a New York e, con esso, la caduta del “sogno
americano di imporre la pace nel mondo”, ha disvelato che la pretesa di
realizzare questo sogno, con la sola forza della logica economica e di un
equilibrio delle grandi potenze mondiali, è un fallimento.
Viviamo in una società in cui assistiamo al
moltiplicarsi delle occasioni di violenza e guerra, una società che anziché
incamminarsi alla ricerca della felicità e creare le condizioni per una
convivenza pacifica, sembra dirigersi verso l’autodistruzione “planetaria”.
Abbiamo bisogno di prendere coscienza che viviamo una trasformazione epocale
sola paragonabile a quella del passaggio dall’era dell’uomo nomade a quella
dell’uomo sedentario.
A fronte di questa situazione, possiamo cercare
aiuto nel passato della cultura greca all’ origine della nostra cultura. I
greci, avevano elaborato una educazione permanente alla saggezza per permettere
di avvicinarci alla felicità. La mia formazione classica mi ha ricordato lo
spazio dato al grido della tragedia greca. Era uno spazio concepito come mezzo
educativo per offrire uno specchio della nostra tragedia umana, dei tanti
conflitti che hanno distrutto e possono distruggere la nostra vita .
L’apprendimento della mediazione riprende la
pedagogia della tragedia greca, per potere, imparare a vivere in armonia con
noi stessi e con gli altri : è un compito della vita.
La mediazione raccoglie il grido di nostra
società “autodistruttiva”, perché abbiamo bisogno innanzitutto di incontrare la
guerra che è dentro il nostro cuore. Noi creiamo purtroppo la morte e non la
vita. Siamo impotenti di fronte agli ostacoli. La mediazione va aldilà della
risoluzione di un conflitto, perché esso è tante volte un pretesto. Se
accettiamo di incontrare la sofferenza (che sempre è un’ esperienza di
separazione) e, attraverso di essa, la nostra realtà umana, possiamo aprirci
alla parte profonda, più elevata : la nostra anima. La mediazione umanistica
restituisce all’uomo la possibilità di vivere la sua completezza attraverso il
concetto di uomo dei Greci: corpo, anima, spirito, per vivere in armonia con se
stesso e con gli altri e… il pianeta. Allora c’è la possibilità di riscoprire
la bellezza della vita, che è felicita : un dono della creazione e del
creatore: siamo nati a immagine della bellezza del creatore, della creazione. E
sempre possibile ritrovarla.
In questo senso sarebbe fondamentale proporre la
mediazione umanistica ai più giovani fin dall’asilo, e durante tutto il
percorso educativo, come percorso di scoperta dell’umanità e di
educazione alle relazioni. Abbiamo dimenticato, nell’ambito dei programmi della
scuola, di insegnare a divenire uomini. L’ insegnamento, al liceo classico,
della cultura classica offre importanti esempi di ricerca e apprendimento,
finalizzati a vivere in armonia; tuttavia, questo ha bisogno di essere legato
al vissuto degli alunni e può essere fatto attraverso l’esperienza della
mediazione umanistica.
Il procuratore del tribunale di Parigi ci aveva
immediatamente affidato casi complessi di violenza.
Quando mi sono trovata di fronte a persone che
avevano agito la violenza, che nutrivano sentimenti di odio e di vendetta, non
ero in grado di trovare alcuna risposta… potevo solamente incontrare il grido,
la “chiamata” di una sofferenza devastante, da ambo le parti del conflitto.
L’esperienza della tragedia greca si è imposta.
Quindi, ho provato ad offrire una forma di
mediazione che ripercorre le tappe della tragedia : teoria, crisi e catarsi,
per dare al grido alla possibilità di cambiamento finale. Questo “modello di
mediazione” si è manifestato come un’opportunità per procedere verso
l’obiettivo di trasformare la disperazione della separazione, in una nuova
vita.
Questo approccio ha aperto una nuova strada
perché abbiamo potuto per primi sperimentare, con questa modalità, una forma di
giustizia nuova: trasformativa/riparativa/ ristorativa delle origini della
esperienza.
È necessario iniziare a dare la parola al corpo
che soffre, che patisce le emozioni che creano malattie. Ho recentemente svolto
uno stage presso un ospizio di Brescia, una delle prime esperienza di cure
palliative in Italia; una suora mi diceva di tanti giovani che sono “ospiti”
lì..: questa è l’effetto della nostra società autodistruttiva : la nostra anima
grida e il corpo si disintegra. Oggi tanti giovani si ritrovano in fin de vita
con gli anziani. È uno scandalo.
La malattia prende tante volte la sua origine nel
profondo dell’anima attraverso le emozioni. Abbiamo dimenticato di vivere
corpo, anima e spirito. Tanti di noi ignorano la dimensione spirituale.
L’abbiamo allontanata perché l’abbiamo legata con la religione, e tante volte
il suo rifiuto ha fatto perdere tutto il senso della dimensione spirituale.
L’esperienza della mediazione mi ha fatto scoprire che è questo livello più
elevato, delle aspirazioni, dei valori – verità, dignità, libertà, giustizia… –
che apre alla dimensione spirituale in cui l’uomo può trovare la trasformazione
che conduce alla pace. I giovani, educati oggi al consumismo, al materialismo
hanno purtroppo perso il senso dei valori e condividono il vuoto esistenziale
della società con tutte le sue malattie.
Ritrovare il concetto dell’ uomo dei greci :
corpo anima e spirito come un vissuto e non un concetto. Lavorare su ciascuna
parte. Il corpo non dove essere ignorato, l’anima dove essere accolta con tutte
le sue emozioni, per aprirsi al livello superiore che tocca un’attesa, un
ideale, uno slancio verso ciò che il bello della vita.
Questa è la parte più elevata dell’anima, che si
apre al livello spirituale e permette di passare dalle tenebre alla luce.
Tutti abbiamo questa dimensione, indipendentemente dal credo, dalla religione,
anche gli atei…tutti abbiamo questa attesa di infinito, un bisogno di ordine,
di una certa forma di ordine interiore.
Quando nella quotidianità delle relazioni ci
allontaniamo da questa dimensione “più alta” siamo guidati dalle nostre
emozioni e questo crea il conflitto e viene la sofferenza, sia interiore che
interpersonale. Tanti di noi portiamo maschere, ruoli perché siamo incapaci di
vivere la nostra completezza : corpo, anima, spirito. Viviamo attraverso un
personaggio esteriore dentro l’ignoranza della nostra autenticità. Nei momenti
di maggiore sconforto e di profondo isolamento, il
grido e le lacrime sono il solo linguaggio che l’anima sconvolta ha per
esternare il proprio bisogno di sua autenticità. La crisis , oggi, non è
solo economica ma soprattutto esistenziale.
Per ascoltare il grido, per disvelare il volto
dell’altro oltre la maschera, per essere mediatori dell’anima, è necessario,
prima di tutto, ascoltare il grido che è tante volte silenzioso e prendere
coscienza della maschera che portiamo. Il conflitto è un’occasione privilegiata
per poterlo fare e permette di incontrare nell’altro se stesso, la “nostra
comune umanità”. Possiamo insieme scoprire spazi di silenzio, perché il
grido, che viene dai tempi primordiali appartiene a tutta l’umanità, viene
da un livello profondo interiore.
Quella che apprendiamo durante uno stage alla
mediazione è la concretizzazione di questo cammino attraverso lo sviluppo di
diverse tappe di passaggio, dal vissuto del corpo, all’anima e allo spirito. Lo
spazio di espressione del grido è una necessità perché viene dall’origine della
vita, ha bisogno di dirsi e si ritrova in tutte le situazioni di conflitto.
L’espressione delle nostre emozioni è senza fine perché è legata al passato, a
la sofferenza di mia madre, di mia nonna, di Eva, fin dall’inizio della nostra
storia umana. Potenzialmente è un grido senza fine… Il passaggio al livello dei
valori è essenziale per liberare e restituire la parola della verità. E questo
è un momento “magico”, perché l’esternazione delle emozioni è avvenuta con
grande agitazione, ma quando si dà parola ai valori , si arriva a una pacificazione,
e il perdono diviene possibile. Nei confliggenti c’è un grande bisogno di
autenticità, di giustizia, di verità… Nell’offrire a entrambi la stessa
opportunità di nominare i valori, si costruisce un primo ponte verso il
riconoscimento dell’altro come essere umano al pari di noi. Questo é
essenziale. La guerra può finire.
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